I colori della bandiera olimpica

A Vishnu (dio indiano della conservazione) è dedicata una festa che ogni anno, con l’inizio della primavera, celebra la vittoria del bene sul male; si potrebbe dire che, spalmando e spargendo i colori sulla loro pelle, i devoti (che chiamano Holi questo festival dei colori) compiano un vero e proprio rito agonistico. Tradizionalmente, che l’esperienza sia il solo tramite dell’insegnamento spirituale è un dato di fatto inaggirabile. Questo nulla toglie alla possibilità che questo stesso insegnamento si renda accessibile attraverso una fenomenologia. Certo, il maestro può solo indicare all’allievo che cosa fare; non può “mostrare” ciò che in realtà si mostra da sé, e che – secondo Ludwig Wittgenstein – non appartiene al sapere: esso è ciò che si mostra come il semplice darsi delle cose, il mistico.

In fondo, si potrebbe affermare che attraverso l’osservazione dei colori arriviamo a considerare la mistica come un concetto concreto, per quanto ineffabile. Se consideriamo il caso esemplare della fenomenologia del colore, vi è per Wittgenstein un problema tipicamente insolubile che risulta evidente dalle considerazioni appena svolte nel ragionamento sul mistico. È l’impossibile (e pertanto inutile) forma logica che insiste nel rendere esplicita l’immagine positivistica della stessa logica, che non a caso Wittgenstein paragona all’algida superfice ghiacciata; esplicitare l’esplicito equivale a rendere colorato ciò che è già dello stesso colore nel campo visivo. Il problema si dissolve non appena si scioglie il crampo logico che lo attanaglia: che senso avrebbe colorare di bianco il foglio bianco?

A Cambridge, dove prima di lui ha insegnato e svolto i suoi esperimenti Isaac Newton, Wittgenstein ha indagato a lungo sul tema dei colori e sulle proprietà dello spettro cromatico, esattamente come il suo illustre predecessore. Sempre a Cambridge, negli ultimi anni di vita, dopo aver letto la Teoria dei colori di Goethe, scriverà un testo dedicato a questo argomento. Nell’evidenziare i diversi punti di vista di questi tre autori si comprenderanno anche le differenze di ordine fenomenologico sulle rispettive proposte. Il che permette di evidenziare la reciproca contiguità delle stesse proposte. E con ciò l’impossibilità di affermare una preferenza data una volta per tutte di una di esse su tutte le altre.

Cominciamo da Newton, che con i suoi esperimenti ha indicato un perimetro misurabile per la scienza della colorimetria; l’idea qui proposta attraverso l’osservazione attraverso il prisma della scomposizione e ricomposizione cromatica è che i colori siano prodotti dalla luce.

Per Goethe, di contro, è all’ordine ideale dei colori, che compongono la luce e la riproducono, che occorre guardare. Per questo il carattere simmetrico e la forma perfettamente circolare meglio descrivono la forma dei colori. Ed è rispetto all’oscurità che i differenti colori dispongono le corrispondenti sensazioni psicologiche, a loro volta schematicamente organizzate su base concettuale.

Da ultimo, ciò che a Wittgenstein interessa evidenziare è che sia l’aspetto sperimentale che quello concettuale, per quanto analiticamente isolati, non possono esistere se non nelle conseguenze pratiche a cui danno accesso in una forma analoga a quella del fenomeno del linguaggio comune, in una sintassi. I colori necessitano, cioè, di una forma logica e di una rappresentazione grammaticale.

Ecco quindi come alle tre differenti rappresentazioni proposte, grammaticale, concettuale e sperimentale, corrispondono tre diverse idee, filosofica, artistica e fisico-naturalistica, di un disegno geometrico cui danno accesso le diverse prospettive ideate dai tre autori: nel caso di Wittgenstein, l’ottaedro, in quello di Newton l’eptaedro; infine, in Goethe, l’esaedro. Ogni differente prospettiva può essere inclusa nell’altra, se si considera che l’ottaedro di Wittgenstein, con la sua forma a doppio cono rovesciato ha al centro i sei colori dell’esaedro goethiano e come punti di fuoco esterni il bianco e il nero, che, se isolati, inquadrano l’eptaedro newtoniano, e da cui, a secondo dell’impostazione tipologica e delle inclinazioni professionali, parte ogni assegnazione di preferenze.

Il confronto tra l’ottica di Newton e la posizione critica di Goethe permette comunque di mettere in prospettiva dialettica il tema dei colori.

Alla base dell’esperienza fisiologica del colore c’è, per Goethe, il contrasto dinamico tra luce ed oscurità. Pensare la luce come composta di colore, come vuole Newton, è quindi un errore, perché lo spettro che ne determina la combinazione a raggiera (per Newton asimmetrico, composto di sette gradazioni; per Goethe simmetrico, composto di sei) può essere assicurato solo da uno sfondo, che a sua volta non può che aggiungere contrasto luminoso (e non può dare, esso stesso, luce). È questo contrasto, che è attivo nella formazione dei colori (prodotti dalla luce) ad essere a sua volta un effetto (ed un prodotto del concetto); in questo stesso modo, una spiegazione non meccanica degli esperimenti di Newton, a partire dal loro svolgimento in una camera oscura, coglie il punto filosofico: una teoria dei colori deve coinvolgere l’oscurità per comprendere l’aspetto fisiologico e percettivo della visione. Insomma, la sensazione e l’immaginazione della luce, che sono collegate e determinate rispetto ad essa, spiegano meglio come la luce sia una dimensione necessaria e sufficiente dei colori; senza di questa vitalità spirituale della visione ogni idea di luce è mortificata nell’idea “scientifica” dell’ottica.

Ce ne rendiamo conto meglio partendo dalla privazione. Basta chiudere gli occhi – direbbero i mistici – e l’idea di visione cambia. Così, esaminando il caso della cecità, può essere meglio delineata una fenomenologia della visione: è ciò che notiamo, a partire da scrittori riconosciuti per la loro qualità nel raccontare cose sconosciute, o – come Borges – fantastiche e mirabili. Sappiamo che lo stesso effetto di sottolineatura drammatica in molta cinematografia riguarda il misterioso, e lo si manifesta proprio attraverso il buio. Ora, si narra che Omero, maestro dell’arte della parola, fosse anch’egli cieco; come può essere compensata in modo pratico – ci si potrebbe chiedere – la privazione attraverso la presenza di luce spirituale lo comprendiamo meglio se la assimiliamo alla produzione artistica, anche come eccellenza dettata da un “di più”, quello che siamo abituati malamente a considerare un “di meno”, vale a dire un handicap. In genere, non siamo abituati a pensare la privazione come una risorsa.

La cosa da valorizzare, per concludere su questo punto, è l’aspetto ideale della conoscenza che otteniamo dalla metodologia che la spiritualità fornisce per una completa formazione e sviluppo della personalità e del carattere; e questo aspetto valoriale della sperimentazione sui colori si applica in molti casi anche allo sportivo.

Voler star bene con gli altri, e far star bene se stessi: è questo insegnamento che si ottiene guardando al senso pratico ed artistico di una sana attività sportiva. È questo ciò che predispone alla via della contemplazione, sia come esercizio pratico e come oggetto della pratica nella meditazione, sia come insegnamento derivato dalla vita (life skills) e dalle modalità dell’esperienza vissuta. Entrambi sono il frutto di quella teoria della pratica che è definita dal concetto di spirito; il luogo ideale in cui siamo contemporaneamente parte attiva e passiva, ovvero ricettiva, del processo artistico vitale.

Vale lo stesso per lo sport. La riflessione della teologia pratica, applicata all’attività sociale e ludica – ormai una disciplina riconosciuta in diverse facoltà, a partire da quelle inglesi e americane di confessione protestante – e la ormai radicata idea olimpica di inclusione – valorizzata di recente da Papa Francesco in una sua intervista importante, che è un’ideale enciclica laica sullo sport – ne sono esempio; hanno il senso di far comprendere il valore dell’ideale di unione nella diversità che è rappresentato dai cinque cerchi colorati, che compongono la bandiera delle olimpiadi. Una riconoscibile, non scontata e non neutrale, comunione d’intenti di respiro universale. In questo modo è possibile dare un senso di costituzione concreta alle cose dello spirito, ed un significato (meno etereo) alla parola spiritualità.

Massimiliano Pandimiglio